23 maggio 2016

Olbia, crocevia asmatico (2011)

Quando quello straordinario istrione che era J. F. Kennedy andò a Berlino e fece un famoso discorso in cui disse “ich bin Berliner”, io sono berlinese, scatenò un entusiasmo e portò una ventata di partecipazione emotiva.
Non: io divento te in tutto, ma vedo il mondo con i tuoi occhi, posso essere te per un momento, per un periodo. E questo è un elemento fondante per una ricca dinamica sociale.
La città partecipa di uno strano paradosso che conoscono i linguisti a proposito dell'uso dei pronomi di prima e seconda persona: quando dico “io” e tu ripeti “io” diciamo la stessa parola però non ci riferiamo alla stessa cosa.
La città è un po' così: quando dici “Olbia” non è come quando lo dico io, perché è un'esperienza assolutamente personale.
Olbia non è una città multiculturale. Olbia, ha tolleranze per le multiculture, ma non lo è diventata.
Ha una fama di città aperta, ma lo è in un modo del tutto statico.
Per alcuni versi ha una “protezione semiologica” dei suoi segni, dei suoi gesti, delle sue parole.
È morfologicamente reazionaria. Gli olbiesi sono intimamente contro le novità.
Tutte le ricostruzioni dell'identità sono fatte ad usum delphini: si vanno a cercare le origini spesso per giustificare i propri particolari progetti.
L'identità si può usare come convenzione di identificazione, ma non ha niente a che vedere con la tradizione. La tradizione è tanto più interessante quanto si recuperano, tutti i passaggi di contaminazione, di differenziazione. Una delle misure per valutare la civiltà della città è vedere quante culture è diventata, non semplicemente quante ne accetta.
Aprirsi al nuovo significa sì ascoltare, ma banalmente riguarda la moltiplicità di responsabilizzazione, la capacità di affidamento alle autonomie e ai processi di autovalorizzazione.
Questo l'olbiese ce l'ha solo nei confronti della cultura del benessere. È aperto a tutte le novità, ma solo se sono rivolte a lui. Se rispondono al suo appagamento. Al suo immaginario che ormai è di tipo merceologico.
La cultura è ornamento?
Oppure un percorso operoso in cui si preparano le visioni e le professioni del futuro. È un brulicare di azioni preliminari al “fare”.
La cultura è uno sguardo per non continuare a parlare di cambiamento (e a celebrarlo e a temerlo) senza l'inventario di ciò che è accaduto, senza il diario di ciò che si sta facendo, senza uno sporgersi avanti, su ciò che sta per venire.

Fabrizio Derosas

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