23 maggio 2016

Il divertimentificio memoriale (2011)

"Non parto e non resto, perché non so dove sono." – Alighiero Boetti

"Utopia" è il nome che il filosofo inglese Thomas More, vissuto tra il 1478 e il 1535, dette ad un'isola immaginaria, che un navigatore portoghese avrebbe conosciuto dopo aver abbandonato, per gusto d'avventura, la spedizione di Amerigo Vespucci.

Dopo il More molti studiosi immaginarono Repubbliche e Stati inesistenti, basti ricordare per tutti, il frate italiano Tommaso Campanella, che in carcere compose, nel 1602, "La Città del Sole". Da sempre l'arte figurativa e plastica, la letteratura, e ogni altro mezzo espressivo a disposizione dell'uomo, ha attinto a piene mani dal bagaglio utopico che ciascuna civiltà ha generato, nel corso dei secoli. "La memoria è vita", in quanto permette di osservare gli eventi ormai trascorsi sotto un'altra luce, riscoprendo avvenimenti che, inconsciamente, hanno trovato la loro dimensione nel sogno. Sognare diventa un tramite per interpretare e pensare la vita con entusiasmo e curiosità, senza angoscia e senso di colpa che ci inducono a rimuovere, ciò che sarà comunque in grado di condizionare il nostro comportamento.

"Hiroshima mon amour" di Alain Resnais è un esempio di come il rimosso, anche dopo molti anni, riaffiora violentemente condizionando il modo di gestire pulsioni e sentimenti.

La difficoltà del rapporto tra arte e società, che aveva suscitato l'accesa dialettica delle correnti dopo la prima guerra mondiale, dopo la seconda si è aggravata al punto da fare ritenere inevitabile, imminente (forse già avvenuta) la "morte" dell'arte.

All'origine vi è una rivolta morale: in una società che accetta il genocidio, i campi di sterminio, la bomba atomica, la distruzione di massa, non possono simultaneamente prodursi atti creativi.

La guerra è l'aspetto culminante della distruzione sistematica e organizzata, del fare per distruggere di una società che si autodefinisce "di consumi". V'è antitesi tra consumo e valore di cui si fruisce, ma che non viene consumato. Un'arte che si consumi fruendone, come un cibo che si mangia, può essere o non: in ogni caso sarà qualcosa di totalmente diverso da tutta l'arte del passato e non avrà più, nei confronti dell'industria, la funzione di vertice e modello che ha avuto nei confronti dell'artigianato. Dicendo che l'arte è morta o sta morendo non si dichiara avvenuta o prossima la "morte dell'arte" preconizzata da Hegel come finale risolversi della conoscenza intuitiva dell'arte nella conoscenza scientifica e filosofica.

L'arte aveva bensì cercato di "razionalizzarsi", sacrificandosi come arte pur di concorrere al formarsi di una civiltà assolutamente razionale: era stata respinta da una società sempre meno razionale e più disposta ad accettare l'arbitrio del potere. Neppure può parlarsi di morte dell'arte nel senso in cui Nietzsche parlava della morte di Dio: l'arte non è un'entità metafisica, ma modo storico dell'agire umano. L'arte ha avuto un principio, può avere una fine. Come sono finite le mitologie pagane, l'alchimia, il feudalesimo, l'artigianato, così può finire l'arte. Ma al paganesimo è succeduto il cristianesimo, all'alchimia la scienza, al feudalesimo le monarchie, all'artigianato l'industria: che cosa può succedere all'arte?

Mai il mondo è stato come oggi, avido e prodigo di immagini. L'apparato tecnologico-organizzativo dell'economia – non limita, potenzia la funzione dell'immagine. Vi sono grandi industrie che non producono e che non vendono altro che immagini. Senza l'informazione mediante l'immagine non vi sarà cultura di massa, e la cultura di una società industriale non può essere che cultura di massa.

Naturalmente l'informazione mediante l'immagine viene organizzata, ha le sue tecniche e i suoi tecnici, si sviluppa col progresso della tecnologia relativa. Si può chiamate arte questa tecnica dell'immagine? Non è soltanto una questione di nomenclatura: se il racconto per mezzo d'immagini si chiamerà cinema invece che pittura o incisione, la differenza sarà soltanto di quantità, dacché nessuno potrà negare che la potenza imago-poietica del cinema stia a quella della pittura come la velocità dell'automobile a quella del cavallo. Si degraderanno gli artisti del loro rango di intellettuali per farne dei tecnici dell'immagine?

Fin dal tempo della Bauhaus molti artisti si sono mostrati pronti ad accettare un nuovo e meno prestigioso servizio sociale: allo stesso modo che i poeti veramente moderni non vogliono essere altro che tecnici della lingua e i musicisti tecnici del suono.

Capivano che l'artista-genio era ormai inattuale, come il poeta-vate; e che per re-inserirsi nella società dovevano accettare il sacrificio del proprio individualismo.

Il progetto di Salvatore Scalora pare ci voglia dire che l'arte è oggi in crisi – come è in crisi la cultura tutta, ma crisi è vitalità più intensa che percorre – come in primavera – le radici stesse dell'essere. L'arte di Scalora vuole vivere e la vita è una cosa sola con la libertà: libertà intima di sviluppo, possibilità di dare a sé stessa le proprie norme, i propri problemi, i propri contenuti e le proprie forme.

Da questa libertà assoluta dell'arte dipende la possibilità di scoprire e consacrare in lei la poeticità della nostra vita, che è insieme certezza gioconda e fede creatrice.

In primo luogo, occorre mettere in discussione il convincimento generale che le cose o le persone vengano al mondo e cessino di esistere. Questa non è un'attestazione dei sensi: i sensi ci mostrano sempre e soltanto cose reali, cose che esistono. Ma ci mostrano anche cose diverse, alcune delle quali si sostituiscono ad altre sulla scena del nostro campo visuale. Se qualcosa (per esempio un individuo vivente) scompare da questa scena e al suo posto appare un'altra cosa (per esempio il suo corpo inanimato), noi diciamo che la prima cosa ha cessato di esistere, sebbene l'esperienza non ci abbia offerto altro spettacolo che l'avvicendamento di due immagini diverse.

Ma quale ragione ci spinge a dire quello che la percezione sensibile, per parte sua, non attesta né può attestare?

Secondo Severino, questa ragione è rappresentata dalla volontà di manipolare il mondo e la natura, dal desiderio di produrre e di distruggere, che ci inducono a forzare la testimonianza dei sensi e ad interpretarla in modo tale che ne risulti inevitabilmente favorito lo sviluppo della civiltà della tecnica.

La magnifica installazione di Salvatore Scalora sottolinea vividamente che dall'origine la storia umana è indistinta dalla storia naturale: prima della colpa, del formarsi della coscienza, dell'inizio di quella che si chiama comunemente "la storia". Questa preistoria, favolosa era il mito, precede la separazione delle cose dallo spazio, dell'oggetto dal soggetto: non è ancora stata inventata la geometria, forma ideale per cui la mente razionale si rappresenta lo spazio reale. È il mondo dell'indistinto, ma poiché l'indistinto non è ancora una condizione d'inferiorità rispetto al distinto, è semplicemente il mondo del continuo: la sua morfologia ignora la retta ed il piano che divide lo spazio, il volume che separa il dentro dal fuori. È dunque una morfologia dalla superficie avvolgente, dalla massa duttile e malleabile che vuole espandersi come pasta lievitata.

Non essendovi distinzione tra uno spazio capiente ed una forma contenuta, le forme vuote hanno lo stesso valore plastico delle piene: vuoto e pieno sono soltanto due sostanze di densità diversa, che si muovono l'una nell'altra senza mescolarsi, come una massa oleosa nell'acqua.



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