23 maggio 2016

Anche la follia merita un applauso (Sono tutti senza scarpe, pubblicazione a cura di Insieme oltre il muro) (2016)

La malattia mentale negli ultimi 40 anni è andata incontro a radicali trasformazioni, nel modo di essere vissuta e nella percezione che la società ha di essa.
La chiusura degli ospedali psichiatrici e la creazione dei servizi nel territorio, la scoperta delle diversità e la fatica di interazioni non sempre prevedibili, la dialettica tra timore e apertura mentale.
Una forte tensione etica ha animato la lotta di Franco Basaglia e dei suoi collaboratori per la distruzione delle istituzioni totali che racchiudevano la devianza sociale.
L'Italia è per questo l'unico paese al mondo ad aver abolito per legge i manicomi.
La riforma psichiatrica (la legge 180 del 1978) ha posto fine all'internamento di decine di migliaia di persone, ha proposto e realizzato un modo di curare e riabilitare le persone più rispettoso della dignità umana, non sempre è stata capita e accettata, talvolta è stata boicottata con determinazione.
Detto questo, qualcuno potrà chiedersi cosa c'entri il cinema con la follia. Intanto a nessuno sfugge la stretta analogia fra immagine filmica e immagine mentale, la capacità del cinema di evocare, proprio grazie ai suoi strumenti linguistici, particolari atmosfere emotive. Inoltre, i migliori film sul tema, sfruttando appieno l'onirismo di base del dispositivo, realizzano il massimo di apertura sull'inconscio, e restituiscono la potenziale ampiezza di significazione della rappresentazione mentale profonda.
Per avvalorare questa tesi basterebbe citare in ordine sparso "Un chien andalou" di Louis Buñuel del 1929, "Diario di una schizofrenica" di Nelo Risi, "Repulsion" di Roman Polanski, per arrivare ai primi anni novanta al "Grande cocomero" di Francesca Archibugi.
Anche la sorella maggiore del cinema, la letteratura ci aiuta a capire che cosa sia la follia. Un esempio clamoroso è il racconto "La tana", Kafka ci mostra come una casa può diventare una prigione.
Lo strano animale che la costruisce e la abita è ossessionato da un'unica idea, che qualcuno dall'esterno possa penetrare nella tana. Escogita ogni sorta di sistemi di sicurezza, trasforma la tana in un labirinto che solo lui conosce, ma poi, siccome un'entrata ci deve pur essere, è là che lui si colloca a spiare i pericoli esterni. Anzi, a un certo punto, con un gesto assurdo decide di uscire dalla tana e nascondersi nei pressi dell'imbocco, per poter meglio controllare le mosse di chi dovesse arrivare.
Anche quest'opera letteraria ci dice che la follia è la diversità e la paura della diversità. E' questa una definizione che ci interessa perché, dopo aver neutralizzato il folle attraverso la medicalizzazione che ha ridotto la follia a una malattia, con questo stratagemma non abbiamo fatto fuori la diversità. E qui penso alla diversità dell'omosessuale, dell'immigrato, dello "straniero", che a quelli del luogo appare "strano", ma penso anche alla diversità di ciascuno di noi quale ci appare di notte nei sogni, e anche di giorno quando allentiamo gli ormeggi dell'io.
Qui in gioco non è solo la diversità degli altri che abbiamo la possibilità di confinare, delegando i folli ai medici, gli stranieri alle forze dell'ordine, ma la nostra diversità che non ammette deleghe, anzi si rinforza proprio nel processo di soppressione.

Ogni volta che allontaniamo il problema della diversità, confermiamo la nostra paura del diverso, che è poi la paura di quel diverso che ciascuno di noi è per sé stesso, e da cui ogni giorno strenuamente ci difendiamo per mantenere la nostra identità.
Per questo parallelismo che esiste tra il diverso che ci abita e il diverso che incontriamo per strada, potremmo chiedere a ciascuno di noi: "Dimmi chi sono per te i diversi e come li escludi, e ti dirò chi sei".

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