Alla stazione vennero a darci il benvenuto il podestà e Don Giulio. Poi con l'unica automobile che si reperiva nel raggio di cento chilometri mi accompagnarono alla casa, che i miei mi avevano lasciato in eredità. Lungo il tragitto ebbi modo di vedere un gran numero di vigne, frutteti e orti. Don Giulio mi strizzò l'occhio come per dire: "Qui la terra è ancora fertile".
Dopo circa un'ora giungemmo a destinazione.
Il paese era rimasto lo stesso: un pugno di case malmesse arrampicate su un cucuzzolo. Un migliaio di abitanti in gran parte anziani, raccolti attorno al minimo indispensabile: la chiesa, il cimitero, un municipio di due stanze.
Quando eravamo in prossimità della canonica si fece incontro un ragazzo visibilmente spaventato. Costui senza salutare nessuno si rivolse a Don Giulio: "Venite, venite zio Francesco". Il podestà intuì al volo che cosa era accaduto. Fece scendere Don Giulio e poi mi accompagnò a casa.
Ci salutammo con il fermo proposito che sarebbe passato a riprendermi verso l'ora di cena.
Nel frattempo mi misi a disfare i bagagli.
Intorno alle quattro sentii suonare la campana a morto. In un baleno tutti quanti affluirono verso la pazza per apprendere la brutta nuova. In centri così piccoli anche la morte è un evento.
Io pure fui preso dall'ansia di sapere e uscii nel cortile che dava sulla strada. Vidi passare lo stesso ragazzino che aveva interrotto bruscamente la marcia dell'automobile. Lo chiamai – si avvicinò e senza che gli domandassi niente mi disse: "Zio Francesco è volato nel cielo di Lenin".
Durante la messa ci mancò poco che non ridessi in faccia a due vecchiette, che sacramentavano sulla sorte del poveretto, poiché aveva avuto la sfrontatezza di morire alla vigilia di Natale.
Si rammaricavano del fatto che proprio il giorno della nascita di Cristo si sarebbe svolto il funerale di un bolscevico.
Nel giro di poche ore di permanenza in paese mi resi conto di quanta stima godesse la mia attività di uomo di lettere. Mi domandavo come mai mi osannassero tanto, visto che nessuno di loro avrebbe mai letto un mio romanzo.
All'improvviso mi ritornò in mente uno dei rari incontri con zio Francesco. Una volta sul fare della sera mia madre mi mandò a cercare mio padre. Feci il giro di vari ritrovi, niente. Quando già mi incamminavo verso la strada di casa, attirò la mia attenzione il portone spalancato di una casetta. Era quella di zio Francesco.
Non ci pensai due volte. Entrai senza fare rumore. Feci qualche passo e poi mi nascosi dietro una vecchia credenza. Zio Francesco mangiava. Probabilmente, consumava l'ennesimo pasto freddo della sua vita. E mentre consumava quel pasto frugale leggeva il giornale.
A sentir leggere zio Francesco, benché fossi molto piccolo, mi resi conto che egli sbagliava tutti gli accenti, e procedeva come se quella pagina fosse stata scritta senza segni d'interpunzione.
Come per un sesto senso si voltò e mi vide: "E tu che cosa stai aspettando. Non vedi che tuo padre è già andato via", mi disse.
"Lo so" – risposi senza scompormi. Quindi parve ignorarmi per un tempo che all'epoca mi sembrò infinito. Avevo poco più di dieci anni. Ero magrissimo e con un eterno raffreddore.
Con uno sguardo rapido e deciso, si rese conto che la mia presenza persisteva. Dacché mi aveva rivolto la parola non mi ero mosso di un palmo.
Quando meno me l'aspettavo mi prese di forza e mi posò sopra il tavolo. La stanza era illuminata da una luce fioca. Mi disse con tono perentorio: "Leggi, leggi e impara – non fare come me".
Quello che più sbalordiva mettendo piede in quella casa era la grande quantità di libri. Se ne vedevano dappertutto: vicino alle provviste, sopra la radio, ai piedi del letto.
Dopo qualche attimo di esitazione si sedette accanto e mi invitò ancora una volta a leggere.
Ma questa volta il tono era più tranquillo, quasi sommesso. Lessi qualche riga e poi mi intimò di smettere. All'improvviso si alzò, frugò in mezzo a quella gazzarra. Non trovò il libro che andava cercando. Dalla sedia su cui ero seduto sentivo un fragoroso fruscio di scartoffie. Rovistò a lungo fra quelle cataste di libri. Riapparve con in viso dipinta un'inconsueta emozione.
Sedette e con una smorfia di soddisfazione mi sorrise. Quindi posò sul tavolo con estrema delicatezza un libro straordinariamente grande.
Fino ad allora non avevo mai visto niente di simile. Lo liberò da un leggero strato di polvere.
E poi cominciò a confidarsi: "Questi libri che vedi intorno a te non li ho mai letti. Ci ho provato... Io sono ignorante. Un ignorante senza speranza. A me piaceva... Ma mio padre".
Restammo in silenzio per un po'. Poi mi sorrise con fare paterno.
Chissà se c'è la verità nel cielo di Lenin?
Fabrizio Derosas
Cineasta, regista teatrale, videoartista, poeta.
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01 agosto 2017
Lo sguardo lento di Irene Recino (2016)
L’artista Irene Recino sa che disegnare o dipingere il paese in cui si è nati e cresciuti, nasce dall’esperienza di trovare un ordine, un criterio, nella complessità del reale.
Un ordine che spieghi a sé stessi e agli altri gli spazi che viviamo e abitiamo.
La Recino per completare le sue preziose opere, le sue tracce testimoniali, si è astratta dal rumore del quotidiano, si è immersa in tempo sospeso in bilico tra presente e futuro.
Ha gestito un tempo dilatato che poi si è fissato nel momento in cui l’immagine si materializzava.
Abbandonarsi nel 2016 al ruolo di flâneur che prima Baudelaire e poi Benjamin definirono, nei due secolo precedenti al nostro come “arte della visione”, ha anche qualcosa di struggente e inedito: la compresenza ormai di mondi insieme paralleli e tangenti, in una confusione che allo stesso tempo onora la sua origine etimologica (confusione deriva dal greco “fondersi in un’unica natura”) fatta di nuove armonie.
È stato detto che Dio si rivela nel dettaglio e qui è proprio questo che accade, perché nel particolare da isolare, nel taglio intelligente delle immagini c’è il segreto della “creazione”, il sentimento verso le opere dell’uomo.
Case, chiese, facciate, vicoli, scorci di architetture, che si animano, si umanizzano (benché non siano mai presenti figure umane), e questi appunti visivi che filtrati da un’attenta elaborazione concettuale, provano a tradurre le movenze in in’infinita ricerca della cifra intima di Sorso.
In un illuminante saggio del 1978 Isaiah Berlin ha suggerito una sorta di fisiognomica delle idee, individuando due grandi famiglie di spiriti. Da una parte le volpi: coloro che perseguono molti fini, spesso disgiunti, non verificati da un principio generale. Dall’altra i ricci: coloro che riferiscono tutto a una visione universale, la sola che po’ dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono.
Servendoci di questa distinzione, potremmo iscrivere Irene Recino nel gruppo delle volpi. Difficile, infatti, cogliere la sua ossessione, il suo pensiero dominante. Ciò che ha sempre caratterizzato la sua sfaccettata avventura creativa è una sincera irrequietezza, che la porta a costruire connessioni e relazioni con la grafica, la pubblicità, il cinema, la fotografia, regalandoci il suo sguardo lento e capiente.
Un ordine che spieghi a sé stessi e agli altri gli spazi che viviamo e abitiamo.
La Recino per completare le sue preziose opere, le sue tracce testimoniali, si è astratta dal rumore del quotidiano, si è immersa in tempo sospeso in bilico tra presente e futuro.
Ha gestito un tempo dilatato che poi si è fissato nel momento in cui l’immagine si materializzava.
Abbandonarsi nel 2016 al ruolo di flâneur che prima Baudelaire e poi Benjamin definirono, nei due secolo precedenti al nostro come “arte della visione”, ha anche qualcosa di struggente e inedito: la compresenza ormai di mondi insieme paralleli e tangenti, in una confusione che allo stesso tempo onora la sua origine etimologica (confusione deriva dal greco “fondersi in un’unica natura”) fatta di nuove armonie.
È stato detto che Dio si rivela nel dettaglio e qui è proprio questo che accade, perché nel particolare da isolare, nel taglio intelligente delle immagini c’è il segreto della “creazione”, il sentimento verso le opere dell’uomo.
Case, chiese, facciate, vicoli, scorci di architetture, che si animano, si umanizzano (benché non siano mai presenti figure umane), e questi appunti visivi che filtrati da un’attenta elaborazione concettuale, provano a tradurre le movenze in in’infinita ricerca della cifra intima di Sorso.
In un illuminante saggio del 1978 Isaiah Berlin ha suggerito una sorta di fisiognomica delle idee, individuando due grandi famiglie di spiriti. Da una parte le volpi: coloro che perseguono molti fini, spesso disgiunti, non verificati da un principio generale. Dall’altra i ricci: coloro che riferiscono tutto a una visione universale, la sola che po’ dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono.
Servendoci di questa distinzione, potremmo iscrivere Irene Recino nel gruppo delle volpi. Difficile, infatti, cogliere la sua ossessione, il suo pensiero dominante. Ciò che ha sempre caratterizzato la sua sfaccettata avventura creativa è una sincera irrequietezza, che la porta a costruire connessioni e relazioni con la grafica, la pubblicità, il cinema, la fotografia, regalandoci il suo sguardo lento e capiente.
22 marzo 2017
Ecologia iconografica - Daniel Rizzo
Secondo Horst Bredekamp, le immagini, per un verso, sono un nostro prodotto; per un altro, possiedono una vita propria. Sono un artefatto umano, ma detengono una loro autonomia che le allontana da noi e le eleva rispetto alle cose inanimate: non sono destinate a cambiare né a mutare. Si pongono sempre sulla soglia tra staticità e dinamismo, le contempliamo, e intanto ci contemplano. È quel che accade quando ci troviamo al cospetto di tanti capolavori del passato: fissiamo negli occhi i protagonisti di quei quadri, mentre ci sentiamo spiati da essi. Un sortilegio: ne siamo tutti inconsapevoli prede.
Anche le immagini che produce Daniel Rizzo, non sono solo oggetti, ma posseggono lo statuto di soggetti attivi. Custodiscono una segreta volontà, una misteriosa performatività.
Nel momento in cui vengono toccate dal nostro sguardo, passano da uno stato di latenza a una liberazione di energheia. Il suo progetto offre una sorta di navigazione in mare aperto, che mira a elaborare una stimolante ecologia iconografica.
La società primitiva aveva le sue maschere, la società borghese i suoi specchi, noi abbiamo le nostre immagini. Crediamo di costringere il mondo con la tecnica. Ma attraverso la tecnica è il mondo che si impone a noi, e l'effetto sorpresa di questo capovolgimento è davvero considerevole.
Daniel Rizzo coltiva uno sguardo personale e anticonformista, con lampi di irriverenza.
La sua "analisi" si concentra in modo particolare su creazioni che si prestano ancora a una fruizione rallentata, meditata, approfondita.
Crea una geografia che mette in crisi categorie e strategie interpretative consolidate, costringendoci a inventarne altre. Piccolo labirinto senza confini, che esige una mobilitazione totale. Costellazioni di immagini liquide. Che è ancora in attesa di un'ermeneutica capace di decifrare i mobili paesaggi della postmedialità.
Anche le immagini che produce Daniel Rizzo, non sono solo oggetti, ma posseggono lo statuto di soggetti attivi. Custodiscono una segreta volontà, una misteriosa performatività.
Nel momento in cui vengono toccate dal nostro sguardo, passano da uno stato di latenza a una liberazione di energheia. Il suo progetto offre una sorta di navigazione in mare aperto, che mira a elaborare una stimolante ecologia iconografica.
La società primitiva aveva le sue maschere, la società borghese i suoi specchi, noi abbiamo le nostre immagini. Crediamo di costringere il mondo con la tecnica. Ma attraverso la tecnica è il mondo che si impone a noi, e l'effetto sorpresa di questo capovolgimento è davvero considerevole.
Daniel Rizzo coltiva uno sguardo personale e anticonformista, con lampi di irriverenza.
La sua "analisi" si concentra in modo particolare su creazioni che si prestano ancora a una fruizione rallentata, meditata, approfondita.
Crea una geografia che mette in crisi categorie e strategie interpretative consolidate, costringendoci a inventarne altre. Piccolo labirinto senza confini, che esige una mobilitazione totale. Costellazioni di immagini liquide. Che è ancora in attesa di un'ermeneutica capace di decifrare i mobili paesaggi della postmedialità.
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