07 settembre 2009

Prefazione del volume “Nella tana dell'orco e altre storie” di Susanna Trossero — edizione L'Autore Libri Firenze (2008)

Sarà certamente capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di subire il fascino misterioso di un luogo e di non riuscire a trovare una spiegazione plausibile sull’origine di tale suggestione: luoghi che trasudano inquietudine o che emanano un profondo senso di tranquillità; posti che sembrano narrare storie di avvenimenti antichissimi o che sembrano incarnare una maledizione che si perde nell’origine dei tempi.
È come se i luoghi fossero in grado di registrare il segno di un’esperienza vissuta per poi restituirla sotto forma di conoscenza sensoriale.
Sin dalla prima lettura dei testi narrativi di Susanna Trossero, ho pensato che ci fosse un’affinità naturale, un rapporto emotivo con la fotografia e in modo particolare con la ricerca iconografica di Luigi Ghirri. Non mi sono mai curato se l’autrice di questo volume di racconti, conoscesse questo fotografo che ha insegnato a tutti a spostare l’angolo visuale, ma entrambi utilizzano la stessa prassi lavorativa: registrazione, scomposizione, ricomposizione.
Ambedue, invitano alla riflessione ed esortano il lettore di foto-grafie o di racconti ad attraversare luoghi fisici o reinventati con gli acidi vischiosi della loro fantasia.
Le foto di Ghirri e i racconti della Trossero riescono a guardare il già visto come se fosse la prima e l’ultima volta.
Luigi Ghirri diceva che quello che il fotografo può fare è aiutare a vedere. Egli si considerava fortunato perché lo pagavano per guardare.
Susanna Trossero scrive con l’intenzione di violare ogni linguaggio respingendone i canoni e le regole cercando di trattenere l’intervento intellettuale a vantaggio di una comunicazione che riesca a vibrare sui sensi. Non è un’azione, ma bisogno di espressione. Ciò significa che il risultato non è più leggibile intellettualmente, ma tramite un rispecchiarsi di personalità.
In ogni momento, tempo o spazio esiste una corrispondenza di sensazioni ed intuizioni che genera un rapporto di comprensione che si estende a tutta la storia della propria emotività e della propria conoscenza. Sono momenti in cui la lucidità dell’intelletto viene assoggettata alla visione e da una dimensione logica che passa allo spazio assurdo di un mondo che rimane reale.
Il magico non sta nell’evidenza o nel riscontro di verità o di realtà inconfutabili, ma nel fatto che esse siano comunicabili, nel contatto appunto che l’oggetto poetico stabilisce: nel piacere della poetica come connubio tra conoscenza, desiderio e necessità che predispone a quello stato di sospensione che annulla il tempo e anestetizza il bisogno di presenza.
Già la parola scritta acquista delle valenze iconografiche. Il suo tracciato sul foglio assume la trasparenza di certi schizzi e disegni.
È un rapporto, quello tra scrittura ed immagine, che rivela sottili curiosità e coincidenze.
Ma nonostante questa comune progettualità della scrittura e dell’arte rimane inevitabile, al momento di coniugarle, un dissidio proprio delle loro immagini: la scrittura mezzo peculiare di una comunicatività significante, l’arte visiva specifica di una comunicatività emozionante.
L’arte esprime uno scatto emotivo diretto, il suo impatto è primariamente sensitivo mentre la scrittura invia un impulso mediato, l’emozione della scrittura è indotta razionalmente.

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