04 settembre 2009

Drop–out (1998)

Paramenti sacri – lenta processione
acqua del Battesimo – mesto venerdì di preghiera.

Ai piedi della croce – Golgota
La Mater Dolorosa di Cristo uomo fratello,
raccoglie il corpo masticato e sputato.

Il credo dei devoti
penetra nelle ossa,
lo stelo del dolore tira
le somme
il credo dei devoti
estrae i chiodi arrugginiti
infissi nel palmo nel legno
stagionato.
La fede s'inculca e persiste
via crucis d'una Pasqua Kosovara.

C'è ancora molto che separa
la bocca dall'orlo del calice,
c'è ancora molto che divide
gli uomini di buona volontà.

Ho cantato l'eterna sconfitta
delle certezze. Ho scoperchiato
cieli di sintassi nel flusso
insensato di quattro pareti
aleatorie.

Questi giorni pesanti
non sanno di niente,
verbi coniugati al gerundio
evitano l'editto di rane
schiacciate.

Nel silenzio tosco – umbro di una pieve – summa serenitate
Optime Pater

La carità non risolve ma perpetua la miseria dei bisognosi. La carità oggi consiste nel dar via quello che abbiamo di superfluo, di non necessario.
Facciamo la carità quando bussano alla porta, o quando ne abbiamo voglia.
Quando bussano alla porta ci disturbano, e sentiamo il bisogno di levarci di dosso quel disturbo.
Il vecchi sindaco di Firenze, Giorgio La Pira spiegava che “quod superest”, non significa “ciò che è in più”, ma ciò che sta sopra: quell'insegnamento deve intendersi pronunciato a tavola e dice agli altri: ”Non mangiate quello che sta sopra il tavolo, datelo ai poveri”.
I poveri non come appendice alla mensa dei ricchi, ma come ospiti primi: prima mangiano loro, se ne resterà, toccherà ai ricchi. Dai ai poveri il tuo pasto e dopo? Dopo se ne andranno poveri come prima.
Nietzsche consigliava una terapia d'urto: “Non dare al povero l'elemosina, ma urlagli crepa”, così quello si offende, reagisce e si salva.
Se dai al povero un pesce, lo sfami una volta; ma se gli insegni a pescare, lo sfami per sempre.
Questo non significa che non si debbano dare le mille lire a chi ti abbranca i piedi, perché quello non ha problemi di giustizia, ha un problema di fame. Non può aspettare che cambi la società: lui entro sera se non mangia si ammala. E dunque diamo le mille lire – ma non può finire lì.

Mi sento uno straniero
senza meta, senza radici.
Posso partire senza indugi
Come un nomade solitario.
Officina di clandestinità
fradicio di dubbi e perché
ma ne andrò rotto come
sono arrivato.

Vai via: lontano dalla mia macchina, via dalle strade, dai semafori, dalla città.
Via piccola pulce che infesti la mia casa, il mio paesaggio, le mie campagne, che mi
derubi e mi chiedi quattrini che ho guadagnato col mio sudore.

Siamo sparsi per tutto il pianeta: un po'
per scelta, molto per necessità.
La nostra storia è una via crucis
di continue persecuzioni.
Accusati di ogni sorta di nefandezze -
siamo stati cacciati – torturati – uccisi -
resi schiavi – deportati.
Nei lager nazisti morirono più di mezzo milione
di zingari: un olocausto completamente dimenticato.
Siamo considerati bugiardi e cattivi, sporchi e pigri,
rapitori di bambini, dediti a ogni genere di magia: un
popolo da disprezzare e da tenere lontano.
Noi siamo gli ultimi tra gli ultimi, i paria dei paria,
i diversi tra i diversi.
Sotto di noi non c'è più niente e nessuno.

Sputi sputati sul vomito di cani.
Sulla scrivania preziose risme
di carta cinese.

Io a scrivere e là a morire.

Mi sento inutile come la guerra.

Chiavi e cancelli. Chiavi che chiudono cancelli, ma anche corpi, desideri, sogni.
Qui è occultato e segregato tutto il male del mondo. Almeno così credono.
Chi vive separato da voi da un muro di cinta si scontra con un sistema che impedisce di tenere in cella custodie rigide per gli occhiali, giacche, cappotti, e fino a qualche giorno fa, persino la colla per la dentiera. Ma che incoraggia l'uso degli psicofarmaci (procurarsi un'aspirina è assai più difficile).
Un luogo di negazione, dove l'affettività è cancellata, e dove non ho ancora avuto il coraggio o la forza di incontrare Betta, la mia bimba di cinque anni.

La mia cella è un cubicolo lungo due metri e mezzo di sbieco, ma che sarebbe apparsa paradisiaca agli abitanti di Sarajevo.
Branda tavolo sgabello. Nello stipetto ci sono: la biancheria, le sigarette, le foto dei miei, le nostre del pallone.

Al futuro non ci penso, anche perché non ci credo perché domani ti prende un infarto, e quel futuro non c'è mai stato.
Qui solo il presente posso vivere.
Non ricordo neanche il passato.
La galera è presente se no impazzisci.

Sin da bambino mi dicevo: da grande rapinerò una banca. Alla fine è diventata realtà.
La mia idea è che i soldi di una banca o di una posta non sono di nessuno.
Da evitare la gioielleria invece, è roba personale e quello si fa ammazzare ma non ti molla niente.

Ho smesso di piangere nel '93 quando è morto mio fratello. Ho sprecato tutte le lacrime là, non hanno risolto e allora non piango più.

Le telecamere riprendono ogni nostro movimento, ogni smarrimento. Le finestre sono ermeticamente chiuse e le luci sempre accese. Mi sembra di essere prigioniero in una scatola di scarpe.
Ho continuamente la gola secca e una costante sensazione di soffocamento.
Posso uscire un'ora al giorno in un cortile minuscolo al quale si accede attraverso una lunga scala. Un cortile circondato da muri alti e bianchi.

Costruiamo musei per sentirci meno transitori.
Quattordici anni nel braccio della morte
quindici minuti per morire
e il codice di Hammurabi
è un punto di non ritorno.

Vivo in un mondo che sopprime la vita di un
uomo e la chiama giustizia.

Ieri hanno assunto il boia e la vendetta di stato
perpetrata.

Ieri hanno fatto fuori un uomo e la giustizia
tumulata.

Un ragazzo dalle occhiaie segnate, si sforza in un sorriso: “Monsieur, fammi un regalo”.
Una donna coperta di stoffe variopinte mi porge un grande vassoio di latta colmo di caramelle.
Un bambino magrissimo, inginocchiato ai miei piedi, tenta di lanciarmi una scarpa.
Un vecchio propone, dondolandole, borsette di pelle d'iguana. Arrivano due venditori di orologi. Questi sono i bana bana, commercianti da marciapiede che percorrono tutta la città cercando tenacemente di concludere i loro piccoli affari.
La città è diventata interamente un mercato. Una massa enorme di ambulanti, che fluisce, pulsa, si concentra e si diffonde dalle prime ore del mattino sino a notte fonda.

RAMADAN
Qualcuno va
qualcuno viene
e sotto i miei occhi sfilano scarpe blu lucide -
passi lenti e misurati nel brusio
del corso illuminato.

Dopo qualche secondo.

Qualcuno va
qualcuno viene
e sotto i miei occhi sfilano scarpe da ginnastica
consumate da passi vivi e svelti e una schiena curva
di tappeti e orologi senza marca.

Piano se ne va questa giornata
in cui non c'è nessuno che mi aspetta.

Ho preso in prestito un'onda salata
la mano nella mano mi tengo compagnia.

Alla fine dei miei giorni
nessuno si deve sentire
in colpa per la mia condizione.
Alla fine dei miei giorni
mi mancherà la pace di un roseto
il tè bollente nel samovar
una mattina di pioggia sul mare.

Alla fine dei miei giorni
la faccia mattiniera di
un uomo lasciato a metà
disperderà la sabbia della clessidra.
Alla fine dei miei giorni
mi mancherà l'acqua benefica
dei tuoi occhi il corpo caldo
di neve e catrame.

Alla fine dei miei giorni
chi piangerà deve avere misura
chi soffrirà deve avere pudore,
il dolore è una scrittura privata.

Nelle macchie della memoria
la speranza – muraglia di parole
è un cane richiamato dal cacciatore,
è lo sguardo di una fiera ammaestrata
dietro la zanzariera di rossi caseggiati
di uggiosi casellanti.

Spiove sul fango di palude
sul legno resiano di un incendio,
il filo d'Arianna nel labirinto
raddensa le consonanti umorali.

Sentivo un forte bisogno di essenzialità. Andai in un monastero delle clarisse: cinque giorni in silenzio. Là ho capito che l'essere cristiana doveva diventare il perno della vita.
Dopo diciotto mesi entravo in clausura.
Taci e se parli, dì cose migliori del silenzio.

Il canto corale dei vespri, dopo il tramonto, prima del silenzio totale e perfetto, lungo quanto una notte, fino all'alba. Quel silenzio è assoluto, ma non è impenetrabile.
E' sacro, ma non è inabitato.
E' un silenzio che non segna una distanza dai rapporti con la gente, ma al contrario dà la misura della loro profondità. Toglie tempo ai discorsi, eppure ne restituisce il senso perduto.
Il silenzio è il filtro attraverso cui ogni suono, ogni parola, ogni grido di uomo viene accolto, purificato, diventa preghiera.
Nel nostro silenzio il dolore degli altri trova spazio. Si dilata. Lascia passare l'essenziale, cancella ogni ridondanza, ogni messaggio inutile. Dà spessore a ciò che più conta.
L'impossibilità di una visione d'insieme, rafforza la percezione dei dettagli. A volte mi capita di ricordare come era bello vedere il mare, o passeggiare in montagna. E poi, le famiglie crescono, si moltiplicano: arrivano i nipotini, sarebbe bello stringerli forte forte. Ma è anche attraverso queste privazioni che il nostro sacrificio si rinnova.

Ho camminato
tra il tanfo acre di vomito
di chi dorme in un angolo
di strada coperto di giornali,
dentro scatole di cartone.

Ho camminato
fra panni stesi e sobborghi polverosi
in queste strade di fango e rottami.

C'è chi è stata bambina
senza una bambola da coccolare
vetrine adornate del centro
da guardare con invidia e malumore.
C'è chi è un angelo benedetto
dell'anomalia ed è sempre stato mulinello di foglia
il vento, o una cosa inutile
messa in disparte.

Sotto i portici mucchi di carne cruda
bruciano in silenzio come rami rinsecchiti,
padri umili e taciturni sulle sponde di un mare ribollente
tornano al primo grido della nascita.

Torno a casa di sera
fra dolore e crepuscoli lucidi
in mezzo alle luci del progresso
nella barbarie dello spreco.

tasche
vuote
nomadi
soli
sulle strade
la
vita
scivola via
come
la
pioggia
sulle ciglia di un ulivo secolare

Le anime morte dei vivi
imbevute di sabbia e ruggine
imbiancano strade di polvere,
specchi consunti limano
le iniziali, il numero di matricola.

Acre ombra ossida le ossa
guizzi tremanti di fiamma
nei bivacchi beduini.

Nessun commento:

Posta un commento