01 agosto 2017

Il cielo di Lenin (1989)

Alla stazione vennero a darci il benvenuto il podestà e Don Giulio. Poi con l'unica automobile che si reperiva nel raggio di cento chilometri mi accompagnarono alla casa, che i miei mi avevano lasciato in eredità. Lungo il tragitto ebbi modo di vedere un gran numero di vigne, frutteti e orti. Don Giulio mi strizzò l'occhio come per dire: "Qui la terra è ancora fertile".
Dopo circa un'ora giungemmo a destinazione.
Il paese era rimasto lo stesso: un pugno di case malmesse arrampicate su un cucuzzolo. Un migliaio di abitanti in gran parte anziani, raccolti attorno al minimo indispensabile: la chiesa, il cimitero, un municipio di due stanze.
Quando eravamo in prossimità della canonica si fece incontro un ragazzo visibilmente spaventato. Costui senza salutare nessuno si rivolse a Don Giulio: "Venite, venite zio Francesco". Il podestà intuì al volo che cosa era accaduto. Fece scendere Don Giulio e poi mi accompagnò a casa.
Ci salutammo con il fermo proposito che sarebbe passato a riprendermi verso l'ora di cena.
Nel frattempo mi misi a disfare i bagagli.
Intorno alle quattro sentii suonare la campana a morto. In un baleno tutti quanti affluirono verso la pazza per apprendere la brutta nuova. In centri così piccoli anche la morte è un evento.
Io pure fui preso dall'ansia di sapere e uscii nel cortile che dava sulla strada. Vidi passare lo stesso ragazzino che aveva interrotto bruscamente la marcia dell'automobile. Lo chiamai – si avvicinò e senza che gli domandassi niente mi disse: "Zio Francesco è volato nel cielo di Lenin".
Durante la messa ci mancò poco che non ridessi in faccia a due vecchiette, che sacramentavano sulla sorte del poveretto, poiché aveva avuto la sfrontatezza di morire alla vigilia di Natale.
Si rammaricavano del fatto che proprio il giorno della nascita di Cristo si sarebbe svolto il funerale di un bolscevico.
Nel giro di poche ore di permanenza in paese mi resi conto di quanta stima godesse la mia attività di uomo di lettere. Mi domandavo come mai mi osannassero tanto, visto che nessuno di loro avrebbe mai letto un mio romanzo.
All'improvviso mi ritornò in mente uno dei rari incontri con zio Francesco. Una volta sul fare della sera mia madre mi mandò a cercare mio padre. Feci il giro di vari ritrovi, niente. Quando già mi incamminavo verso la strada di casa, attirò la mia attenzione il portone spalancato di una casetta. Era quella di zio Francesco.
Non ci pensai due volte. Entrai senza fare rumore. Feci qualche passo e poi mi nascosi dietro una vecchia credenza. Zio Francesco mangiava. Probabilmente, consumava l'ennesimo pasto freddo della sua vita. E mentre consumava quel pasto frugale leggeva il giornale.
A sentir leggere zio Francesco, benché fossi molto piccolo, mi resi conto che egli sbagliava tutti gli accenti, e procedeva come se quella pagina fosse stata scritta senza segni d'interpunzione.
Come per un sesto senso si voltò e mi vide: "E tu che cosa stai aspettando. Non vedi che tuo padre è già andato via", mi disse.
"Lo so" – risposi senza scompormi. Quindi parve ignorarmi per un tempo che all'epoca mi sembrò infinito. Avevo poco più di dieci anni. Ero magrissimo e con un eterno raffreddore.
Con uno sguardo rapido e deciso, si rese conto che la mia presenza persisteva. Dacché mi aveva rivolto la parola non mi ero mosso di un palmo.
Quando meno me l'aspettavo mi prese di forza e mi posò sopra il tavolo. La stanza era illuminata da una luce fioca. Mi disse con tono perentorio: "Leggi, leggi e impara – non fare come me".
Quello che più sbalordiva mettendo piede in quella casa era la grande quantità di libri. Se ne vedevano dappertutto: vicino alle provviste, sopra la radio, ai piedi del letto.
Dopo qualche attimo di esitazione si sedette accanto e mi invitò ancora una volta a leggere.
Ma questa volta il tono era più tranquillo, quasi sommesso. Lessi qualche riga e poi mi intimò di smettere. All'improvviso si alzò, frugò in mezzo a quella gazzarra. Non trovò il libro che andava cercando. Dalla sedia su cui ero seduto sentivo un fragoroso fruscio di scartoffie. Rovistò a lungo fra quelle cataste di libri. Riapparve con in viso dipinta un'inconsueta emozione.
Sedette e con una smorfia di soddisfazione mi sorrise. Quindi posò sul tavolo con estrema delicatezza un libro straordinariamente grande.
Fino ad allora non avevo mai visto niente di simile. Lo liberò da un leggero strato di polvere.
E poi cominciò a confidarsi: "Questi libri che vedi intorno a te non li ho mai letti. Ci ho provato... Io sono ignorante. Un ignorante senza speranza. A me piaceva... Ma mio padre".
Restammo in silenzio per un po'. Poi mi sorrise con fare paterno.
Chissà se c'è la verità nel cielo di Lenin?

Nessun commento:

Posta un commento